Michelangelo Dall’Ora


Michelangelo, Miche per i parenti stretti e Moreto per quelli alla lontana, era conosciuto da tutti come ‘el Molinar’, soprannome che rimandava inconfondibilmente al lavoro che svolgeva con
grande passione cioè la gestione del mulino di Via Quinzano, insieme ai fratelli Giuseppe, detto Bepi, Silvio, Mario, Maria Libera alias Mariella e, saltuariamente, Giancarla.
Era un uomo tutto di un pezzo riguardo al rispetto dei valori fondamentali di cittadino e di cristiano ed era anche un pezzo d’uomo in quanto alto, massiccio, con due spalle larghe e forti che erano il suo vanto. In età giovanile, infatti, era stato per anni campione di uno sport, praticato solo da poche categorie di lavoratori, che si potrebbe definire come ‘peso massimo caricato e trasportato sulle spalle’.
Le gare si svolgevano senza una scadenza fissa, preferibilmente nelle corti o nei magazzini, ed i partecipanti erano mugnai, carrettieri, muratori etc. El Molinar sbaragliava tutti dato che
riusciva ad alzare e portare sacchi di cereali, soprattutto di granoturco proveniente dal Rio della Plata (Argentina), che pesavano ben oltre il quintale, rimanendo in posizione pressoché eretta.
Aveva i capelli bruni e ricci e due occhi neri che all’occorrenza ti fulminavano. Reclamava serietà e precisione sul lavoro ed era sempre disponibile con clienti ed operai. A chi acquistava al dettaglio farina di mais non mancava mai di suggerire che per la migliore resa della polenta era indispensabile mescolarla per 40 minuti come minimo. Era molto insistente sull’argomento, visto
che era ghiotto di polenta tanto da mangiarne anche a metà mattina preferibilmente con qualche fetta di salame.
Goliardico nei rari momenti liberi, era di poche parole in famiglia ed inflessibile con i sei figli dai quali pretendeva un minimo di collaborazione in casa, la massima dedizione agli studi, la frequenza alla Messa e alle ‘funzioni’, celebrazioni liturgiche pomeridiane domenicali, che si concludevano con il canto del ‘Tantum Ergo’ e la benedizione solenne impartita dal sacerdote con l’ostensorio d’oro contenente il Corpo di Cristo. Michelangelo era intransigente con i suoi bambini e ragazzi (comprendevano tutte le età) anche riguardo alla partecipazione al catechismo, alla processione del ‘Corpus Dòmini’ con i cesti ricolmi di petali di fiori, sparsi lungo il tragitto, e alle varie riunioni che andavano diffondendosi dopo il Concilio Vaticano II (1963-1965), allo scopo di spiegarne le finalità ed i contenuti.
C’era un’intesa speciale con la moglie Francesca al punto che, da quanto risulta, in presenza di estranei comunicava con lei più con lo sguardo che verbalmente. Nessuno l’ha mai sentito
bestemmiare; infatti non è mai andato oltre qualche imprecazione contro il governo.
Partecipava con assiduità alla Messa domenicale, dapprima a Quinzano, poi, con la costituzione della nuova parrocchia, presso la chiesa dei Padri Camilliani ed infine nella sede temporanea di
Santa Maria Ausiliatrice nell’edificio che, per la sua architettura, in famiglia veniva scherzosamente denominato la ‘colombara’.
Per lui la domenica era un giorno di riposo ma anche produttivo. Ben vestito, in compagnia dei suoi fratelli, prima e dopo la Messa si intratteneva sul sagrato della chiesa per concludere affari con contadini, allevatori e mezzadri che scendevano dalle contrade più lontane.
Pur non praticandolo, aveva una passione sfrenata per il ciclismo, tanto che, eccezionalmente,teneva la radiolina accesa in mulino durante il Giro d’Italia per poterlo seguire tappa per tappa.
Michelangelo non andava mai in bicicletta, amava piuttosto guidare il ‘suo’ camion, un Leoncino verde che sfrecciava (si fa per dire) attraverso la Valpadana portando a destinazione sacchi di
polenta, farina, avena, talvolta pulcini e rientrando sempre con il cassone carico: polenta taragna,riso, cavoli, vino, angurie; insomma, el Molinar è stato un precursore della moderna logistica. Dai viaggi di lavoro brevi, come Avesa, Parona, San Michele, Bussolengo, o lunghi, come Trento, Mantova, Brescia, Vicenza, tornava sorridendo, varcava il cancello a suon di clacson e
parcheggiava il mezzo trionfalmente in cortile, soddisfatto più che se avesse vinto un Gran Premio automobilistico.
Era un meccanico provetto, aggiustava da sé il camion ed era considerato anche un esperto di motori. Aveva affinato questa sua ‘arte’ in Africa, durante una prigionia durata due anni. Si vantava
di aver riparato anche l’automobile di una famosa diva americana, rimasta in panne in prossimità del campo inglese dove lui era detenuto.
Aveva un sogno, del tutto realizzabile, manifestato più volte alla famiglia nel corso delle tante gite domenicali, le rare occasioni in cui parlava senza misurare le parole, aprendosi alla moglie e ai figli:
«Quando andrò in pensione mi comprerò una casetta dalle parti di Trento per trascorrervi l’estate».
Era molto affezionato a questa città, meta di tante escursioni, poiché lì aveva assolto al servizio militare. Soffriva molto il caldo, anche se aveva lungamente sperimentato quello torrido di 40 gradi e oltre durante l’interminabile periodo trascorso nel continente nero. Beveva litri di acqua al giorno forse per compensare la grande sete patita in Africa e mangiava una quantità smisurata di arance e mandarini, agrumi che lo avevano sfamato nel lento viaggio in nave, di ritorno dalla prigionia: nella dispensa di bordo non c’era nient’altro.
Purtroppo, ben prima dello scadere del pensionamento, si era ammalato di cancro ai polmoni che, a soli tre mesi dalla diagnosi, l’aveva ucciso. Aveva 52 anni; lasciava la moglie e sei figli. La
malattia, a detta dei medici, era da imputarsi al fumo, vizio preso durante la detenzione africana e continuato poi negli anni, ma, secondo i familiari, da attribuirsi anche alle polveri rilasciate dai cereali, specie durante la macinazione. Il tumore in ogni modo aveva bruciato il suo grande sogno.
Fu benvoluto el Miche, in vita e dopo la sua scomparsa. Il giorno dei suoi funerali la ‘colombara’ si rivelò inadeguata a contenere tutti quelli che volevano salutarlo, a partire dalla famiglia, una vera e propria tribù, poi gli amici storici ovvero il cognato Giuseppe Castagna, Davide falegname, Gino macellaio, Raffaello Canela, Gino Pighi, i numerosi clienti, i colleghi ‘molinari’, conoscenti e tanta gente comune di Quinzano, Avesa e soprattutto di Ponte Crencano.
All’epoca (1974) il quartiere si era ormai consolidato attorno alla sua chiesa, ancorché provvisoria e limitata negli spazi. Si trattava di una parrocchia che contava un gran numero di famiglie cristiane, ricca di bambini, di giovani, di fedeli responsabili ed animosi che, sollecitati dal Concilio, si lanciavano con entusiasmo nelle diverse iniziative pastorali; era ricca di valori. C’era una forte interazione tra Chiesa e comunità che agivano in sinergia, arricchendosi reciprocamente: un’effettiva comunione di credenti.